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In questa vicenda della strage di Nassirya ci sono
alcune cose che ci uniscono: il dolore per i morti, tutti i morti,
civili e militari, italiani e iracheni, la vicinanza umana e cristiana
con le famiglie degli uccisi, la condanna per chi con la propria
violenza ha causato tante vittime.
Ma in tutto il resto la pensiamo molto diversamente dal diluvio
di retorica che ci ha sommerso in questi giorni, complici mezzi
di informazione ormai funzionali al regime, che hanno rinunciato
nella quasi totalità dei casi a ragionare e a consentire
di parlare a chi dissente.
Ci sembrava impossibile riuscire ad emergere dal mare di menzogne,
luoghi comuni, ipocrisia di questi giorni: poi abbiamo cominciato
ad ascoltare e leggere parole diverse, che ci hanno aperto il cuore
e la mente. Ha cominciato don Vinicio Albanesi, presidente del Coordinamento
nazionale delle comunità di accoglienza, il quale il giorno
dopo la strage ha scritto:
È sempre terribile la notizia della morte in guerra
di un padre, di un figlio, un fratello, un fidanzato, un marito,
un amico. Lo proveranno tutto, senza sconti, le famiglie dei nostri
carabinieri e militari, morti in Iraq. Gli uomini delle istituzioni
faranno di tutto per dare solennità a quelle morti: funerali
di stato, con bandiere, fanfare e medaglie. Alle famiglie resteranno
foto, lettere, telefonate. Presto ingialliranno, per lasciare il
posto al silenzio duraturo della scomparsa del loro caro. Hanno
chiesto di non fare polemiche: tutti silenziosi di fronte alla morte.
Ma nonostante il silenzio imposto, rimane la domanda se il sacrificio
di quelle vite era necessario. Noi rispondiamo di no: come non era
necessaria la guerra. Hanno manomesso rapporti di intelligence dei
loro paesi pur di convincere l'opinione pubblica che era necessaria;
si sono autoproclamati angeli giustizieri prima contro la armi di
distruzione di massa, poi contro il dittatore Saddam, ora contro
il terrorismo. Giustificazioni postume per dire a tutti che la guerra
era doverosa. L'Italia ha spedito contingenti di uomini, soprattutto
del sud che, con l'essere militari, si riscattano dalla disoccupazione
e dalla vita precaria; hanno dato giustificazioni altruiste e nobili
a una guerra che non era né nobile, né gratuita. Qualcuno
aveva scongiurato di ricorrere a tutti i mezzi, ma non alla guerra,
per fermare Saddam: ricordiamo tra questi il Papa. Ha invocato,
pregato, attivato messaggeri e diplomazia. Inascoltato, perché
occorreva liberare l'umanità dalle forze del male, rimproverandolo,
nemmeno troppo discretamente, di favorire la feroce dittatura di
Saddam. In queste ore, nella nostra Italia, la giustificazione della
presenza italiana in Iraq ondeggia tra l'immagine di soldati forti
che combattono il terrorismo e quella di portatori di umanità
che fraternizzano con le popolazioni locali. In Iraq incombe una
guerra, dichiarata vinta, ma che si dimostra non vinta. E tra le
tante vittime risultano nostri concittadini perché sono stati
identificati con il nemico. I nostri soldati sono morti per una
guerra di governi; nemmeno di popoli. L'affetto va alle famiglie
dei nostri soldati e non colmerà l'inutilità di vite
perdute. Ritornino a casa tutti i nostri uomini: potranno partecipare
alle missioni umanitarie solo ed esclusivamente quando saranno effettivamente
garanti di pace e di fraternità: non certamente in Iraq.
Poi due giornalisti, due fra i pochissimi che hanno ancora il coraggio
di pensare. Così ha scritto Giulietto Chiesa:
Adesso coloro che sono responsabili diretti di quelle nostre
morti cercano canagliescamente di nascondere le loro responsabilità
sotto una coltre di retorica patriottica.
Prima che la guerra cominciasse, poi a guerra iniziata, abbiamo
riempito il paese di bandiere di pace. Molte sono rimaste - e giustamente
- appese a dimostrare che fu giusto metterle, perché la guerra
non era affatto finita. Chi le ha lasciate aveva ragione. Le lasci,
anche se i loro colori si sono stemperati. Chi le ha ritirate le
riesponga. Chi non le aveva ancora messe le tiri fuori. È
un messaggio visivo potente, razionale, solidale, democratico. Moltiplichiamolo,
nell'interesse della ragione e della pace.
E Antonio Padellaro ha aggiunto:
Una missione, quella italiana, progettata e organizzata da
un governo che voleva dichiarare guerra a Saddam senza farla e voleva
fare la guerra insieme a Bush senza dichiararla. Non a caso si è
parlato di intervento "non belligerante", definizione
tra le più ambigue della nostra storia patria. Ma i terroristi,
purtroppo, non hanno colto la sfumatura.
Si è parlato di terrorismo in questa vicenda: ma è
davvero così? Il terrorismo è quello che si è
scatenato in Turchia contro le sinagoghe, uccidendo civili in un
paese che non è in guerra. Come si può parlare di
terrorismo in un paese che è in guerra, occupato militarmente
da altre potenze straniere fra cui l'Italia, in una azione mirata
contro un obiettivo militare e che ha ucciso soprattutto militari?
Non è molto più terrorismo il bombardamento dell'Iraq
effettuato dagli americani, a seguito del quale sono morte migliaia
di persone quasi tutte civili? Come può condannare l'azione
di Nassirya chi sostiene che la guerra può essere lo strumento
per la risoluzione delle controversie internazionali, come crede
il governo americano, come crede il governo italiano? Noi che affermiamo
il rifiuto assoluto della guerra, senza se e senza ma, possiamo
con credibilità condannare la strage di Nassirya, non può
farlo chi di quella strage è il principale responsabile per
aver mandato al macello giovani di appena 20 anni. Si, mandato al
macello, anche se erano volontari, e ben pagati. Fra le lacrime
la moglie di uno di quei soldati ha detto: “ Gli avevano fatto
credere che sarebbe andato a fare del bene in un'azione di pace,
ed invece l'hanno mandato a fare la guerra ”.
Li hanno chiamati eroi i giovani morti: “ Felice il paese,
che non ha bisogno di eroi ” scriveva Bertold Brecht. Se proprio
di eroi dobbiamo parlare, allora ci viene in mente Annalena Tonelli,
la volontaria italiana uccisa qualche mese fa in Africa dopo aver
servito per 30 anni i più sofferenti. O Moreno Locatelli,
ucciso 10 anni fa a Sarajevo da un cecchino, volontario di Beati
i costruttori di pace. Donne e uomini di pace davvero. Per loro
niente funerali di Stato, niente lutto nazionale: non è funzionale
al regime chi pratica il dialogo e la carità anche coi musulmani,
o chi crede che la pace si conquista con la nonviolenza e non con
le armi.
Noi pensiamo che il modo migliore per onorare i soldati morti sia
quello di rafforzare il nostro impegno contro tutte le guerre e
gli strumenti che le rendono possibili. La morte dei militari italiani
in Iraq, che ci addolora come ogni vittima di tutte le violenze,
è conseguenza della ingiustificabile guerra preventiva degli
Stati Uniti e della presenza militare italiana, che risulta non
di pace ma di fiancheggiamento della conquista militare. Il nostro
dolore è anche maggiore per la vicinanza che sentiamo a questi
giovani ed alle loro famiglie, e per la consapevolezza che non si
è fatto abbastanza per impedire la loro partenza. Crediamo
che il governo debba ritirare un contingente militare che non doveva
inviare, ed agire subito per sostenere la costituzione di Corpi
Civili di Pace addestrati per missioni di pace in contesti come
quello iracheno. Ogni rappresentante delle istituzioni, a partire
dal Capo dello Stato, ogni forza presente nel governo e in parlamento
è chiamata ad assumersi la propria responsabilità.
Una comune iniziativa europea volta a portare distensione e pacificazione
in quell'area sembra la risposta adeguata. A questa intendiamo collaborare.
In questa prospettiva invitiamo i cittadini a sostenere concretamente
la presenza di organismi umanitari in Iraq e nel contempo ad opporsi
alla ulteriore presenza militare italiana, ed esortiamo i militari
a rifiutarsi di parteciparvi.
I soldati morti sono da onorare in quanto vittime, non perché
sono caduti nel compiere un dovere cui dovevano rifiutarsi. Don
Lorenzo Milani ricorda a tal proposito, nella lettera ai giudici,
il Concilio di Trento che ha affermato: “ Se le autorità
politiche comanderanno qualcosa di iniquo, non sono assolutamente
da ascoltare. Nello spiegare questa cosa al popolo il parroco faccia
notare che premio grande e proporzionato è riservato in cielo
a coloro che obbediscono a questo precetto divino ”.
Non è vero che ritirando i militari si rinuncia a sostenere
la popolazione irachena. E' vero il contrario. Molto di più
si potrebbe fare se i 40 milioni di euro che si spendono ogni mese
per mantenere il contingente militare italiano fossero usati per
ricostruire scuole, ospedali, centrali idriche. Non è vero
che è necessaria una presenza militare per fare questo: lo
dimostrano le ONG italiane che con decine di operatori operano da
mesi con interventi umanitari in tutto il paese. Sono questi gli
interventi umanitari che bisogna sviluppare.
Ancora una volta sono le parole di Don Milani che ci aiutano a
comprendere. Scrisse infatti don Lorenzo a conclusione della sua
risposta ai cappellani militari: “ Rispettiamo la sofferenza
e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose
confusioni fra il bene e il male, fra la verità e l'errore,
fra la morte di un aggressore e quello della sua vittima. Se volete
diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro
colpa da una propaganda d'odio, si son sacrificati per il solo malinteso
ideale di Patria, calpestando senza avvedersene ogni altro nobile
ideale umano ”.
Luciano Benini
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