La speranza
Relazione di Laura Boella all’incontro della “Cattedra del dialogo”.
Parlare della speranza per la mia generazione rischia di assumere i tratti dell’autobiografia oppure anche di una storia del secolo scorso: la speranza è stata infatti una figura centrale, ma altamente drammatica nel Novecento ed è difficile separarla da eventi storici collettivi come la rivoluzione sovietica e anche le rivolte giovanili degli anni ’60. La filosofia della speranza di Ernst Bloch, è oggi pressoché dimenticata, la teologia della speranza appare un relitto di un periodo confuso. La speranza non interessa più o, scusate il gioco di parole, fa paura, appare pericolosa come forza collettiva che incide sulla storia e sulla politica, responsabile in fondo di molte catastrofi, di slanci in avanti immotivati e spesso pagati a caro prezzo, di un’ansia di miglioramento che, se non è fallita, si è rovesciata spesso nel suo contrario, esercitando violenza e autoritarismo sui singoli. A livello individuale, l’ideale o l’utopia di un mondo migliore, diverso o anche di una felicità personale sembra ormai un azzardo o un folle volo dell’immaginazione. Oggi temiamo il futuro, pieno di incognite e povero di rinnovamento e ci attestiamo, anzi siamo risucchiati dal presente, con le sue esigenze di “realismo”, di calcolo delle possibilità oggettive.
Negli anni ’80, spentasi la fiammata delle rivolte giovanili e diventato sempre più urgente il confronto con la distruttività della tecnica, Hans Jonas capovolse l’invito del filosofo della speranza Ernst Bloch a “imparare a sperare” nell’invito a “imparare a disperare, a avere paura”. Paura di che? Del futuro, del suo ignoto e delle sue minacce di distruzione dell’ambiente e delle condizioni di vita dell’umanità. Il principio angoscia, disperazione, ha, per alcuni versi a ragione, sostituito l’eccessiva fiducia della speranza nel possibile, nella trasformazione e manipolazione dell’esistente con gli strumenti della tecnica. Ma è anche vero che ci si può chiedere se il senso del limite, della responsabilità e del rispetto che dovrebbero derivare dal netto ridimensionamento delle aspettative della speranza non rischino di essere gravati dall’ombra troppo cupa del principio disperazione. Soprattutto, se pensiamo alle giovani generazioni, ha senso insegnare a disperare?
La storia del secolo scorso ha prodotto un effetto di restringimento dell’orizzonte della speranza e forse una semplificazione del concetto. La speranza infatti non deve essere intesa solo come potente agente propulsivo della dinamica storica, una sorta di spinta in avanti che imprime la novità e il mutamento su processi che, lasciati a se stessi, avrebbero un andamento più lento o meccanico, ripetitivo. Essa appartiene anche alla vita soggettiva di ognuno, corrisponde alla capacità umana di anticipare e immaginare ciò che non è presente, ma è solo verosimile o probabile, ciò che non si dà ancora in carne e ossa, che non ha raggiunto forma compiuta, ma si annuncia o è oggetto di proiezioni e elaborazioni della fantasia, del desiderio, dell’ideazione. La speranza corrisponde alla capacità della mente umana di farsi guidare e ispirare da ideali, immagini di felicità, perfezione e compiutezza. In tal senso, essa coinvolge tutte le attività della mente. La speranza è sicuramente intrisa di emozione, di desiderio, di passionalità (è un affetto d’attesa), è sicuramente impaziente e turbolenta come ogni manifestazione della vita emotiva e come tale dà la tonalità emotiva alla volontà, con la sua esitazione, incertezza, il conflitto delle motivazioni. La capacità di anticipazione e immaginazione di ciò che non è ancora reale la colloca al centro della percezione (senza anticipazione non vedremmo le cose…) e delle funzioni cognitive, in particolare della memoria. La speranza, dunque, va vista non solo all’interno della costellazione dei sentimenti e degli affetti, ma anche come una dimensione che attraversa l’intera vita soggettiva.
Da questo punto di vista, non sembra più tanto irrealistico e passato di moda l’invito di Bloch a imparare a sperare. Certo, dobbiamo cercare di capire che cosa significhi sperare.
Vista in una luce che non la schiacci esclusivamente sugli avvenimenti storico-politici e sulle ideologie del secolo scorso, la speranza mostra in effetti una trama molto complessa. Sperare ha una parentela stretta con il sogno, con la creazione fantastica, con l’ideale, l’utopia, il progetto, con tutte le attività della mente che oltrepassano la realtà data e si proiettano verso qualcosa di migliore, di diverso. Lo scarto rispetto alla realtà è un elemento fondamentale della speranza. Ne consegue che per capire che cosa significhi sperare bisogna fare i conti con le illusioni della speranza e con le sue possibili delusioni. La speranza, in altri termini, deve fronteggiare la possibilità dell’illusione e anche la possibilità di essere delusa, di non venire realizzata, compiuta. Tra illusione e delusione c’è però una differenza: l’illusione ha a che vedere con il contatto con la realtà e implica la sostituzione della fantasia alla realtà, la delusione ha a che vedere con la realizzazione dell’ideale o dell’oggetto della speranza. Mentre la speranza astratta è una fuga dalla realtà e quindi una negazione dello sforzo di miglioramento, la mancata o parziale realizzazione della speranza non implica necessariamente il suo fallimento, ma può anzi rilanciarne il contenuto ideale.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il pensiero della speranza è stato elaborato nell’ambito della filosofia del ‘900 proprio tematizzando le illusioni, le delusioni, la malinconia che aleggiano intorno alla speranza. Il grande testo sulla speranza, ancora oggi da leggere e riscoprire, resta Il principio speranza di Ernst Bloch. Bisogna però ricordare che, pubblicato nel 1955, nella Repubblica Democratica Tedesca, fu scritto negli Stati Uniti in un momento di tragico isolamento di Bloch che ebbe enormi resistenze a imparare l’inglese e quindi visse chiuso nella sua stanza, sostanzialmente, a scrivere il libro dell’esilio. Il programma blochiano di sviluppare il principio speranza, la dimensione di non ancora della realtà viene dunque messo in pratica scrivendo il libro dell’esilio, il libro di una vita in un mondo straniero, un mondo che parlava un’altra lingua.
Bloch, che aveva iniziato con un libro sull’utopia, impregnato di forti tinte escatologiche e messianiche, matura il suo vero e proprio pensiero della speranza negli anni Trenta, nella Germania su cui incombe lo spettro del nazismo. E tale maturazione avviene in un dialogo molto stretto con Walter Benjamin, il pensatore della “speranza dei senza speranza”. Il pensiero della speranza nasce dunque in un momento di particolare pienezza di aspettative come quello della Rivoluzione russa e dello spirito delle avanguardie e matura in strettissimo dialogo con un pensiero che non crede sostanzialmente alla speranza come forza che spinge in avanti. Ciò significa che il pensiero della speranza nel Novecento si alimenta della critica di una concezione della storia come sviluppo lineare e progressivo e soprattutto si sviluppa in direzione del ritrovamento, nel soggetto e nella realtà, di una dimensione di speranza intesa come capacità di anticipazione e ideazione.
A questo punto si possono citare alcune delle più significative immagini della speranza che la filosofia del Novecento ci ha lasciato in eredità. Innanzitutto, il mito di Pandora, un mito antichissimo tramandato in molteplici versioni. La versione che arriva ai filosofi che hanno riflettuto sulla speranza è molto dubitativa: il vaso di Pandora racchiude l’ultimo bene o l’ultimo male? Ciò che rimane del contenuto del vaso di Pandora è un ultimo dono degli dei al genere umano, oppure è un ultimo fardello, un peso da cui il genere umano non saprà più liberarsi? Questa immagine, tanto intrisa di perplessità, è in fondo quella che ci consegna Il principio speranza di Bloch nelle sue parti finali. Il libro ha come sottotitolo Immagini di un mondo migliore e quindi raccoglie le molteplici forme poetiche, letterarie, architettoniche (ci sono anche le utopie tecniche, viste in maniera molto barocca e sfavillante da Bloch), le cifre, i simboli che l’umanità ha creato di un mondo migliore. Al termine di questa gigantesca enciclopedia dei desideri, dei sogni e delle proiezioni attraverso cui l’umanità si è rivolta verso il meglio, l’immagine che ci consegna Bloch non è affatto interamente positiva, tantomeno é un’immagine di compiutezza. Nella parte conclusiva del primo volume del Principio speranza Bloch parla della speranza come di una “porta semiaperta su un’alba paragonabile a un avvento”. Abbiamo di fronte un varco, non propriamente spalancato, verso un momento iniziale, aurorale, carico della promessa di compimento propria di un avvento. In queste pagine ritorna anche l’immagine del vaso di Pandora, reinterpretata in un vero e proprio gioco di luci. Bloch scrive: «Il vaso di Pandora si apre come un mare immenso sovrastato al crepuscolo dalle nuvole e dalla tempesta e all’orizzonte del quale si levano le brume del mattino rosseggianti e dorate» . Nella tipica coloritura della scrittura blochiana notiamo una legge di contrasto, un sistema di opposti: un mare immenso sovrastato al crepuscolo, al calar del sole, da nuvole e da tempesta, ma che comprende un orizzonte, un profilo lontano sul quale si levano brume, non si leva ancora la luce del mattino, bensì una lieve foschia che assume colori rosseggianti e dorati. In questo modo Bloch arriva alla conclusione che il vaso di Pandora è il mondo incompiuto insieme allo spazio vuoto con scintille che rappresentano la sua latenza. Credo che questa sia l’immagine più veritiera e anche più complessa della speranza lasciataci dal suo grande teorico del Novecento, quella di un orizzonte di incompiutezza, di uno spazio vuoto in cui balenano piccole fiammelle, scintille che rappresentano la sua latenza, nulla di manifesto ed esplicito, bensì una potenzialità ancora nascosta, in stato di sospensione. Importante è ciò che essa suggerisce: la realtà è incompiuta, è in stato di sospensione, di inizio e a questa caratteristica della realtà corrisponde una dinamica interna alla vita soggettiva, anch’essa caratterizzata da una ricerca, da un movimento in indietro e in avanti. Per Bloch ogni essere umano vive in un’oscurità che è immediatezza inconsapevole, non coincidenza di ciò che viviamo con i nostri desideri e la nostra coscienza. E’ questa la sensazione di mancanza, di insoddisfazione, ma anche spesso di opacità, di grigiore dell’esistenza comune. Appunto in questa zona buia – un’infelicità senza desideri – si apre la scoperta di qualcosa d’altro, qui nasce la speranza. Il movimento della speranza, l’oltrepassamento, non è un movimento del pensiero, ma innanzitutto un movimento vitale, proprio dell’esperienza quotidiana del vivere:
“Viviamo oltre noi stessi. L’adesso preme (treibt), esattamente così com’è oscuro. Questo premere va verso qualcosa che a noi manca. Indifferente, dapprima, se ciò che manca non è più o non è ancora, se sia perduto o in particolare sia solo futuro. Qualcosa di diverso dall’oggi, un oggi migliore sovviene in ogni caso. Così oltrepassiamo incessantemente l’adesso” .
“Il nostro oscuro così ci sta davanti doppiamente, in quanto stretto nel sonno (schlafend eng) e in quanto aperto. Il primo tipo è quello dell’attimo immediato, è il luogo in cui si vive e non si vede nulla… Il secondo tipo di oscuro però non è in nessun modo ottuso, al contrario ha in sé un ampio futuro e il possibile non vissuto. Lo stato non ancora cosciente è riempito di esso, soprattutto ogni spazio utopico; da questo punto di vista è un oscuro colorato (ein buntes Dunkel) o un oscuro in cui si espande una notevole pienezza. Soprattutto il sapere non ancora cosciente dà colore, per così dire una penombra di colore (Daemmerung von Farbe); così però che non dissipi l’oscuro, ma piuttosto lo porti in sé come un secondo tipo, aurorale, di oscuro” .
C’è un’altra immagine che campeggia nella filosofia del Novecento con la stessa forza e forse una potenza ammonitrice ancora maggiore rispetto alla figura complessa della speranza di Bloch. È quella contenuta nelle Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin , miracolosamente salvate e affidate a Hannah Arendt nella fuga attraverso i Pirenei che si concluse tragicamente. Si tratta di un testo in cui il principio del progresso viene radicalmente confutato e all’immagine della marcia trionfale della storia in avanti viene sostituita l’immagine del profeta con lo sguardo rivolto al passato. Noto è il riferimento della nona tesi al quadro di Paul Klee, Angelus Novus: un angelo viene spinto a forza verso il futuro da una tempesta che spira dal paradiso, ma resiste, si oppone alla forza che lo spinge in avanti e si volta indietro verso la storia che gli appare un mucchio di rovine con un unico desiderio, quello di ricomporre l’infranto. La posizione di Bloch e quella di Benjamin sono state probabilmente molto più in dialogo di quanto comunemente si creda. Un’altra immagine benjaminiana ci viene pertanto in aiuto per costruire la costellazione della speranza nella filosofia del Novecento. È contenuta in un bel libro di Benjamin, molto surrealista, degli anni Trenta, Strada a senso unico. Qui troviamo il riferimento all’immagine della speranza che si trova scolpita sul portale del Duomo di Firenze ed è opera di Andrea Pisano. Il brano di Benjamin suona così: «Sopra il portale la Spes di Andrea Pisano, seduta, leva impotente le braccia verso un frutto che le rimane irraggiungibile e tuttavia è alata. Nulla di più vero» . Anche questa è un’immagine di grande potenza simbolica, tutta giocata sulla legge del contrasto e della coesistenza degli opposti. La figura della speranza è seduta, non è slanciata in avanti, forse è impotente, ma leva le mani verso un frutto che rimane irraggiungibile; è immobile, ma leva le braccia e ha le ali. Si tratta dunque di una speranza che si volge a un obiettivo impossibile, ma è comunque impegnata in una tensione, non è priva di ali. Questa immagine potrebbe benissimo essere ricollegata a quella che chiude un altro splendido saggio di Walter Benjamin, il saggio del 1924 sulle Affinità elettive di Goethe: nelle pagine conclusive compare l’immagine della speranza come stella cadente che si leva sulla testa degli amanti, i protagonisti del romanzo, senza che loro se ne accorgano. È questa la «speranza dei senza speranza» .
Siamo arrivati al cuore del pensiero più intenso e che ancora ci parla, sporgendosi dall’abisso che si è scavato tra il Novecento e l’inizio del nuovo millennio. Nonostante Bloch avesse un programma e uno spirito probabilmente refrattari alle immagini di tensione impotente, di ali che non riescono a spiccare il volo, di speranza seduta, sebbene il suo impeto vitale di scrittura e di pensiero resistesse al senso del limite proprio di Benjamin, tanto l’immagine blochiana, quanto quella benjaminiana dicono che il problema della speranza non è esclusivamente quello della tensione in avanti, del sogno di un mondo migliore. Il problema della speranza è piuttosto, come mostrano i chiaroscuri, il crepuscolo e l’alba di Bloch, quello di fare i conti con il passato e con il presente. Il problema della speranza è un problema di realtà, di quale concezione abbiamo di ciò che è reale e presente. L’insegnamento più profondo che ci viene dal profeta della speranza, Bloch, e dal critico della speranza, Benjamin, è che senza una collocazione, un prendere le misure nei confronti del presente e del passato, la tensione verso il futuro risulta vuota e, spesso può anche risultare catastrofica. Questa vicenda insegna innanzitutto che la speranza non è semplice fiducia nel sole dell’avvenire oppure nelle magnifiche sorti e progressive, bensì è una potenza energetica, profondamente insidiata da forze contrapposte e da se stessa, dai rischi di fughe in avanti e di proiezione sostanzialmente nel vuoto. Se questa visione più drammatica e più complessa costituisce sicuramente la principale eredità del pensiero del ‘900, non si può dire che il discorso sulla speranza sia concluso.
Questo è il punto su cui si può esercitare un nuovo pensiero della speranza. Certo, non impareremo mai a sperare se non modifichiamo la scena della speranza. Abbiamo visto che la scena della speranza non comprende i colori e i toni che convenzionalmente ad essa vengono attribuiti: non il sole dell’avvenire, ma l’oscurità, non l’illusione delle magnifiche sorti e progressive, dell’inesorabile marcia in avanti, ma lo scavo dentro il presente, la ricerca quasi da rabdomante, di risonanze nascoste, di momenti germinali dentro il presente. Nessuna fuga verso un passato mitico o verso un futuro sperato può esonerare dal fare i conti con il presente, con la realtà. Ma il presente non può essere contrapposto al futuro come unico indice di realtà. Soprattutto oggi che il presente appare una dimensione secondo alcuni “liquida” (Bauman), fluida, secondo altri “in dissolvenza” (Spivak), evanescente, sfumata e cangiante, difficilmente afferrabile.
Un pensiero del presente lucidamente immune dalle possibili fughe in avanti e indietro e estraneo a ogni filosofia della storia, utopia e escatologia, come quello di Hannah Arendt, ripropone significativamente la figura delle fiammelle che si accendono nel buio: una raccolta di saggi tra le più belle e le più note di Hannah Arendt, Men in Dark Times, allude a figure, uomini e donne, che avevano acceso delle scintille nei brechtiani tempi bui . Ritroviamo, in un contesto completamente diverso, il vuoto popolato di scintille di Bloch, lo spazio aperto, in sospeso, della speranza, simbolicamente raffigurato dalle piccole faville accese dall’esistenza di poeti, scrittori tra i quali non a caso c’è anche Benjamin.
Il problema è la comunicazione tra passato, presente e futuro: solo così il presente può mantenere aperti spazi di sogno, di anticipazione e immaginazione. Diventa decisivo il momento di oscurità, riflesso nei tempi bui brechtiani, che appare il più contrastante con l’idea convenzionale di speranza. Peraltro l’oscurità corrisponde nella maniera più esatta al modo in cui in ognuno di noi e nella realtà che ci circonda si dischiude la capacità di sperare.
Oggi è effettivamente possibile leggere la realtà in cui viviamo in termini di non ancora, ma a condizione di non isolarlo dal non più. Il presente in cui viviamo non è certo lo spazio della realizzazione compiuta della giustizia o del benessere, ma non è nemmeno una superficie liscia in cui non accade più niente di nuovo e di imprevisto e in cui non si dia possibilità di libero movimento, anche contro le regole stabilite. L’incompiutezza a cui rinviava Bloch e in maniera ancora più efficace Benjamin è in fondo lo stato di sospensione di un presente costituito da qualcosa che non è più, che è stato, ma insieme da ciò che non è ancora. E’ in questa dimensione, in cui niente è ancora definitivamente realizzato, ma anche niente è ancora irrimediabilmente perduto o fallito o scomparso dalla scena, che lavora la speranza. Oggi un grande gesto di speranza può essere la lettura della realtà come non ancora, indecisa nel suo esito, realtà ancora piena di strati da scoprire. Una lettura della realtà di questo tipo non può che avvenire in gran parte in termini di memoria. C’è un non ancora anche della memoria, così come c’è una memoria non solo del passato, ma anche del futuro. Sappiamo quanto la memoria possa essere creativa, poiché essa non è soltanto un andarsi a riprendere nel passato (sia individuale sia collettivo) un’immagine compiuta, ma spesso é attivazione di momenti del passato che non hanno potuto compiersi o sono stati trascurati, disprezzati. C’è effettivamente una forza utopica – questo termine era già stato usato da Bloch – nel ricordare, che peraltro spesso si compie, anche a livello individuale, alla luce di un ideale o di un’immagine migliore di noi stessi e del mondo. Pensiamo alla memoria di fatti tragici come la Shoah che, quando non è esclusivamente una memoria tenebrosa che non fa altro che incupire gli animi, è una memoria creativa, animata da un’immagine ideale di umanità che si ribella contro quello che è stato e dice: quello che è accaduto non dovrà più accadere. Il gesto della memoria è dunque uno dei principali gesti di speranza, proprio perché la memoria mette in contatto con quanto di incompiuto giace sepolto, invisibile, in ciò che è stato, con quanto non soltanto di imperfetto, ma anche di scarsamente venuto alla luce, giace negli avvenimenti che sono accaduti. Se questa è la linea in cui maggiormente la speranza può incontrare la sensibilità attuale, è possibile allora fare un passo ulteriore e provare almeno a parlare di speranza (e questo è un altro momento della sensibilità contemporanea col quale è inevitabile fare i conti) anche tenendo conto di una storia fondamentalmente tragica quale è stata la storia del Novecento, una storia che ha come figura di fondo non certo quella del bene e della felicità dell’umanità futura, bensì la figura del male. Certo, ci si può chiedere: com’è compatibile questo rilancio della speranza con una visione tragica della storia, una visione che non può fare a meno di mettere al centro il male radicale? Si può almeno provare a pensare che una concezione tragica della storia che pone al centro il male, il male imprescrittibile, imperdonabile, non può in fondo impedire di pensare che i giochi non siano tutti fatti o, detto in altri termini, che la storia non sia irrimediabilmente finita. Questa apertura, certo, precaria, non ha nessuna garanzia, ma rimane il fatto che la partita non è ancora chiusa.. In questa apertura tutto è possibile, ed è possibile di conseguenza anche sperare, attivare qualcosa di nuovo.
Maria Zambrano esprimere in maniera molto delicata questa possibilità di apertura non garantita nel contesto di una visione radicalmente tragica della storia. In un testo intitolato, non a caso, I beati, Zambrano parla della speranza che non spera nulla, di una speranza priva di speranza che si alimenta della propria incertezza: è «[…] la speranza creatrice, quella che estrae la sua stessa forza dal vuoto, dall’avversità, dall’opposizione, senza per questo opporsi a nulla, senza lanciarsi in alcun tipo di guerra. È la speranza che crea restando sospesa, senza ignorarla, al di sopra della realtà, quella che fa emergere la realtà ancora inedita, la parola non detta: la speranza rivelatrice… che nasce dal sacrificio.» .