16 agosto 2008

Il cristiano e la laicità

IL CRISTIANO E LA LAICITÀ
Introduzione
Il tema che mi avete chiesto di svolgere tocca una questione essenziale della vita del cristiano, questione che oggi a me sembra affrontata, dentro e fuori la chiesa, in maniera inadeguata, col rischio dell’integralismo da una parte e del laicismo dall’altra.
Nell’introduzione ai testi che vi sono serviti da preparazione a questo incontro, Margherita Di Giorgio ha scritto una frase molto bella e importante che qui voglio riprendere: “Anche questa potrebbe essere un’occasione per compiere quel “discernimento comunitario” alla luce dei segni dei tempi, che è una caratteristica fondamentale del carisma degli Istituti Secolari”.
Già la costituzione conciliare Gaudium et Spes al punto 4 così si era espressa:

“… è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico”.

Credo proprio che alla chiesa di oggi manchi soprattutto questo “discernimento comunitario alla luce dei segni dei tempi” che, a mio avviso, è possibile solo ad una chiesa che si metta sotto la parola di Dio, come la Dei Verbum aveva esemplarmente detto ma come poi non abbiamo saputo mettere in pratica in questi ormai quasi 50 anni da quella “primavera della chiesa” che è stato il Concilio. È dunque in questa prospettiva, quella del “discernimento comunitario alla luce dei segni dei tempi”, che pongo queste mie riflessioni alle quali, proprio perché sia comunitario, aggiungerete le vostre.

Poiché la questione della laicità è strettamente legata alla questione del rapporto fra chiesa e mondo, e quindi della questione della gestione del potere da parte dei cristiani, parto da un ricordo. Quasi 30 anni fa Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose, in Piemonte, stava commentando il brano delle tentazioni di Gesù nel deserto nel Vangelo di Luca, laddove emerge con chiarezza che il potere, ogni potere, economico, politico, militare, religioso, è in mano al maligno. Dunque il cristiano che gestisce un qualche potere deve sapere di avere in mano un tizzone ardente: solamente se munito di “abiti virtuosi”, come diceva don Giuseppe Dossetti, è possibile per il cristiano gestire il potere come servizio, che è poi l’unico modo che è dato al cristiano di stare in mezzo agli uomini. Alla domanda “ma allora la Chiesa nel corso dei secoli non è stata fedele al Vangelo perché ha gestito poteri di ogni tipo”, Enzo Bianchi rispose che in fondo l’unico compito della Chiesa è quello di tenere alta la croce di Cristo annunciando che solamente in essa vi è salvezza, e a questo dovere la Chiesa non è mai venuta meno.

In premessa mi sembra utile chiarire alcuni termini della discussione: per laico qui intendiamo non già il non credente, come spesso oggi con una cattiva accezione si indica, ma in generale tutti coloro che non appartengono alla gerarchia ecclesiastica, non sono cioè né vescovi, né preti, né diaconi né religiosi. I laici cristiani sono dunque laici al pari dei credenti in altre fedi o dei non credenti. Semmai la questione vera è come essere “nel” mondo ma non “del” mondo, come direbbe Giovanni. Proprio fra queste due preposizioni si gioca tutta la questione della laicità cristiana.
Come ulteriore precisazione, riporto la definizione di laicità che Claudio Magris fa in un articolo che avete utilizzato in preparazione a questo incontro: “Laicità non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis; è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede, a prescindere dall’adesione o meno a tale fede; di distinguere le sfere e gli ambiti delle diverse competenze, in primo luogo quelle della Chiesa e quelle dello Stato.
La laicità non si identifica con alcun credo, con alcuna filosofia o ideologia, ma è l’attitudine ad articolare il proprio pensiero (ateo, religioso, idealista, marxista) secondo principi logici che non possono essere condizionati, nella coerenza del loro procedere, da nessuna fede, da nessun pathos del cuore, perché in tal caso si cade in un pasticcio, sempre oscurantista. La cultura — anche cattolica — se è tale è sempre laica, così come la logica — di San Tommaso o di un pensatore ateo — non può non affidarsi a criteri di razionalità e la dimostrazione di un teorema, anche se fatta da un Santo della Chiesa, deve obbedire alle leggi della matematica e non al catechismo”.

Chiariti dunque alcuni termini vi propongo, come ogni seria riflessioni sui grandi temi cristiani dovrebbe fare, un percorso in 2 fasi:

?    anzitutto, ciò che la Sacra Scrittura dice a noi su questo tema;
?    poi, quella che è stata la prassi dei cristiani nel corso dei secoli e ciò che a me pare sia necessario che i cristiani facciano oggi in ordine a questo tema.

Ciò che la Sacra Scrittura dice a noi sul tema del cristiano e della laicità
Partiamo dunque dalla Scrittura. E partiamo dal famoso testo su Dio e Cesare. Leggiamolo.
Il tributo a Cesare (Lc 20)
[20]Postisi in osservazione, mandarono informatori, che si fingessero persone oneste, per coglierlo in fallo nelle sue parole e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore. [21]Costoro lo interrogarono:
«Maestro, sappiamo che parli e insegni con rettitudine e non guardi in faccia a nessuno, ma insegni secondo verità la via di Dio. [22]E’ lecito che noi paghiamo il tributo a Cesare?». [23]Conoscendo la loro malizia, disse: [24]«Mostratemi un denaro: di chi è l’immagine e l’iscrizione?». Risposero: «Di Cesare». [25]Ed egli disse: «Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». [26]Così non poterono coglierlo in fallo davanti al popolo e, meravigliati della sua risposta, tacquero.

Questo testo è abitualmente utilizzato dai laicisti (e quando uso questo termine intendo dargli una accezione negativa, nel senso di un uso strumentale e distorto della laicità) per mettere da parte e rendere innocui i credenti e dir loro che persino il Vangelo li ricaccia nelle sagrestie mandandoli ad occuparsi delle cose di Dio e lasciando che siano gli altri ad occuparsi delle cose degli uomini. Ricordo una durissima polemica, a tal proposito, accesa da Indro Montanelli e Giovanni Spadolini contro Vescovi, preti e migliaia di cristiani che negli anni ’80 promossero la campagna di obiezione di coscienza alle spese militari. I due insigni laicisti sostenevano che i cattolici non potevano intervenire nelle questioni riguardanti lo Stato e dovevano limitarsi a curare le anime dei loro fedeli, lasciando ai politici il compito di decidere se fosse utile o meno installare gli euromissili ed aumentare le spese militari. E in questa durissima polemica citarono proprio, a sostegno delle loro tesi, il branco evangelico su Dio e Cesare. Benissimo intervennero, allora, il Vescovo Luigi Bettazzi, padre Alex Zanotelli e tantissimi cristiani a dire che quella lettura del brano evangelico era deformata e persino opposta al suo vero significato. Sulla moneta romana vi era l’effige di Cesare e un iscrizione che lo descriveva come un dio. Nella sua risposta (che ben traducendo dovrebbe suonare “restituite a Cesare quel che è di Cesare purchè a Dio quel che è di Dio”) Gesù esprime l’assoluta necessità di dare anzitutto a Dio ciò che è di Dio. E che cos’è di Dio? Tutto è di Dio, perché l’essere umano stesso è a immagine di Dio, ed è dunque l’intero essere umano che va dato a Dio, la sua dignità, il suo diritto alla giustizia e alla pace, il suo intero essere. Se dunque l’essere umano è dato completamente a Dio perché di Dio ne è immagine, si può poi restituire a Cesare quel che è di Cesare, cioè le leggi e le norme che regolamentano la vita fra gli uomini, ma mai affibbiando al Cesare di turno qualità assolute o addirittura divine. Dunque poiché nelle spese militari e negli euromissili c’era in gioco la dignità e la vita di milioni di esseri umani, non solo era legittimo ma doveroso che i cattolici fossero impegnati in prima linea a difendere la pace e ad opporsi alla guerra e alla sua preparazione.
Sulla stessa linea qualche anno prima, il 18 ottobre 1965, don Lorenzo Milani aveva scritto la famosa “Lettera ai giudici” per difendersi dall’accusa di aver vilipeso le forze armate difendendo l’obiezione di coscienza al servizio militare. Così scrisse don Lorenzo:

Tutti sanno che la Chiesa onora i suoi martiri. Poco lontano dal vostro Tribunale essa ha eretto una basilica per onorare l’umile pescatore che ha pagato con la vita il contrasto fra la sua coscienza e l’ordinamento vigente. S. Pietro era un «cattivo cittadino». I vostri predecessori del Tribunale di Roma non ebbero tutti i torti a condannarlo.
Eppure essi non erano intolleranti verso le religioni. Avevano costruito a Roma i templi di tutti gli dei e avevano cura di offrir sacrifici ad ogni altare.
In una sola religione il loro profondo senso del diritto ravvisò un pericolo mortale per le loro istituzioni. Quella il cui primo comandamento dice: «Io sono un Dio geloso. Non avere altro Dio fuori che me».
A quei tempi pareva dunque inevitabile che i buoni ebrei e i buoni cristiani paressero cattivi cittadini.
Poi le leggi dello Stato progredirono. Lasciatemi dire, con buona pace dei laicisti, che esse vennero man mano avvicinandosi alla legge di Dio. Così va diventando ogni giorno più facile per noi esser riconosciuti buoni cittadini. Ma è per coincidenza e non per sua natura che questo avviene. Non meravigliatevi dunque se ancora non possiamo obbedire tutte le leggi degli uomini. Miglioriamole ancora e un giorno le obbediremo tutte. Vi ho detto che come maestro civile sto dando una mano anch’io a migliorarle.
Perché io ho fiducia nelle leggi degli uomini. Nel breve corso della mia vita mi pare che abbiano progredito a vista d’occhio.
Condannano oggi tante cose cattive che ieri sancivano. Oggi condannano la pena di morte, l’assolutismo, la monarchia, la censura, le colonie, il razzismo, l’inferiorità della donna, la prostituzione, il lavoro dei ragazzi. Onorano lo sciopero, i sindacati, i partiti.
Tutto questo è un irreversibile avvicinarsi alla legge di Dio. Già oggi la coincidenza è così grande che normalmente un buon cristiano può passare anche l’intera vita senza mai essere costretto dalla coscienza a violare una legge dello Stato.

Una prima conclusione allora che potremmo trarre è che il cristiano pone l’obbedienza alla propria coscienza, illuminata dalla parola di Dio letta e vissuta nella Chiesa, come il supremo dovere, fino alla necessità dell’obiezione di coscienza quando sorgesse un contrasto fra l’obbedienza a Dio e quella agli uomini: su questo punto basterebbe ricordare le parole di Pietro in At 5,29: “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”.

Un secondo testo che vi propongo è quello di Giovanni al capitolo 17.
[15]Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. [16]Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. [17]Consacrali nella verità. La tua parola è verità. [18]Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo; [19]per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità.
Il cristiano è “nel” mondo e Gesù non chiede al Padre di toglierli dal mondo. Gesù stesso, incarnandosi, è entrato nel mondo e vi ha vissuto pienamente, non sottraendosi alle questioni sociali, politiche, di giustizia, di pace, di rapporti personali e collettivi. Non c’è dunque affatto, in questo testo di Giovanni, alcun spazio per interpretazioni negative di questo mondo, quasi che il cristiano dovesse disprezzare la vita terrena per meglio concentrarsi su quella eterna. Finchè il Signore gli concede di vivere su questa terra, il cristiano deve spendere ogni sua energia per intessere rapporti di amore, riconciliazione e giustizia fra gli esseri umani. La differenza cristiana, per citare un libro di Enzo Bianchi, sta nel vivere pienamente nel mondo sapendo però che la prospettiva è quella della vita eterna dopo la morte terrena, il che significa vivere e guardare alle cose in modo spirituale. La spiritualità è proprio questo: non moltiplicare preghiere e pratiche religiose, ma vivere pienamente la vita terrena nella prospettiva della vita eterna, guardare alle cose terrene con lo sguardo che avrebbe Gesù. Purtroppo una visione negativa delle cose del mondo ha prodotto per secoli un invito a fuggire da questa terra guardando solamente alla vita eterna: ci ha pensato il Concilio a spazzar via questa visione distorta delle cose. Già all’inizio della costituzione conciliare Gaudium et Spes leggiamo:

“Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore.
La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti.
Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia.

Quasi una esegesi del testo di Giovanni è la famosa lettera “A Diogneto” La Lettera a Diogneto è un breve scritto in greco, che un ignoto cristiano della prima metà del II° secolo rivolge a un amico per spiegare e difendere la nuova fede cristiana. È uno dei più suggestivi documenti dell’antica letteratura cristiana che appartiene ai cosiddetti “Padri apostolici”. Leggiamone i punti 5 e 6.

I cristiani non si differenziano dal resto degli uomini, né per territorio, né per lingua, né per consuetudini di vita. Infatti non abitano città particolari, né usano un qualche strano linguaggio, né conducono uno speciale genere di vita. La loro dottrina non fu inventata per riflessione e indagine di uomini amanti delle novità, né essi si appoggiano, come taluni, sopra un sistema filosofico umano. La dottrina di un Dio è la loro filosofia. Dimorano in città sia civili che barbare, come capita. E, pur seguendo nel vestito, nel vitto e nel resto della vita le usanze del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e per ammissione di tutti incredibile. Abitano ciascuno la loro patria, ma come forestieri. Partecipano a tutte le attività di buoni cittadini e accettano tutti gli oneri come ospiti di passaggio. Ogni terra straniera è patria per loro, mentre ogni patria è per essi terra straniera. Come tutti gli altri si sposano e hanno figli, ma non mettono in pericolo i loro bambini. Amano fare comunione fra loro e sono fedeli al matrimonio. Vivono nel corpo, ma non secondo il corpo. Trascorrono la loro vita sulla terra, ma la loro cittadinanza è quella del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, ma con il loro modo di vivere sono superiori alle leggi. Amano tutti e da tutti sono perseguitati. Sono sconosciuti eppure condannati. Sono mandati a morte, ma con questo ricevono la vita. Sono poveri, ma arricchiscono molti. Mancano di ogni cosa, ma trovano tutto in sovrabbondanza. Sono disprezzati, ma nel disprezzo trovano la loro gloria. Sono colpiti nella fama e intanto si rende testimonianza alla loro giustizia. Sono ingiuriati e benedicono, sono trattati con disprezzo e ricambiano con l’onore. Pur facendo il bene sono puniti come malfattori e quando sono puniti si rallegrano, quasi si desse loro la vita. Gli eretici fanno loro guerra come a gente straniera e i pagani li perseguitano, ma quanti li odiano non sanno dire il motivo della loro inimicizia. In una parola, i cristiani sono nel mondo quello che è l’anima nel corpo. L’anima si trova in tutte le membra del corpo; anche i cristiani sono sparsi nelle città del mondo. L’anima abita nel corpo, ma non proviene dal corpo; anche i cristiani abitano in questo mondo, ma non sono del mondo.

Una seconda conclusione che potremmo trarre è allora che il cristiano è chiamato a vivere pienamente nel mondo camminando a fianco del resto dell’umanità, consapevole che solo nel Regno dei cieli vi sarà piena giustizia e riconciliazione ma non per questo rinunciando a lottare già qui ed ora per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato con tutti gli uomini e le donne di buona volontà.

Così vissuta non c’è alcuno spazio per quella “religione oppio dei popoli“ o quella visione alienante della fede che pure si è così tanto diffusa nella convinzione di tante persone fino alla metà del secolo scorso.

L’ultimo testo che vi propongo lo traggo dagli Atti degli Apostoli. In particolare al capitolo 2 e poi al capitolo 4, in quelli che sono chiamati “I sommari”, viene descritta la vita delle prime comunità cristiane. Quelle descrizioni non hanno semplicemente un valore storico ma ci dicono espressamente come dovrebbero vivere anche oggi le comunità cristiane. Sono dunque una indicazione preziosa e precisa per noi oggi. Leggiamo.
At 2 – La prima comunità cristiana
[42]Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. [43]Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. [44]Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; [45]chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. [46]Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, [47]lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo. [48]Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati.
At 4 – La prima comunità cristiana
[32]La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. [33]Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. [34]Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto [35]e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno.
Troviamo in questi testi da una parte una grande coesione interna delle comunità cristiane, che si volevano bene e vivevano in una grande prassi di reciproca solidarietà, ma anche un rapporto sano e positivo con il mondo, considerato non il luogo della perdizione e del male ma il campo nel quale il Signore ha mandato i suoi fedeli a lavorare, dove c’è zizzania ma anche tanto frutto buono, così come zizzania e frutto buono c’è nella Chiesa.

Una terza conclusione che mi pare si possa trarre è allora questa: prima e più ancora di dire agli altri quello che devono fare, prima e più ancora di voler inserire nelle leggi dello Stato le proprie convinzioni etiche, il cristiano deve vivere ciò che annuncia e annunciare ciò che vive. Altrimenti anche per essi vale l’accusa di Gesù in Lc 11,46:

«Guai anche a voi, dottori della legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!
La prassi dei cristiani sul tema della laicità: ieri, oggi, domani.
Sarebbe lunga e molto complessa l’analisi del rapporto fra i cristiani e il mondo, e quindi in fin dei conti l’analisi della prassi dei cristiani sul tema della laicità, nel corso dei secoli. Si pensi solo ai primi 3 secoli, coi cristiani perseguitati ed espulsi dalla società civile; poi con l’editto di Costantino del 313 ammessi alla vita civile e quindi con l’editto di Teodosio, nel 395, addirittura considerati gli unici ammessi ai culti religiosi, con tutto ciò che questo ha comportato in termini di compromessi con il potere e depauperamento della forza e della libertà del Vangelo.
Credo che sia più interessante concentrarci su periodo che va dal Concilio Vaticano II ad oggi, sia perchè sono anni che abbiamo largamente vissuto sia perché vi possiamo trarre preziose indicazioni per il futuro.
Prima di affrontare il Concilio, però, credo vada accennato a quanto accadde in Italia con i lavori della costituente perché a me pare che ciò che avvenne sia stato uno splendido esempio di laicità dei cattolici impegnati in politica, primo fra tutti quel Giuseppe Dossetti che ebbe poi parte così importante anche durante i lavori conciliari. La Costituzione che ne è scaturita è uno straordinario esempio di come si possano scrivere le regole fondamentali del vivere civile non al ribasso, rinunciando ciascuno al contributo delle proprie idealità, ma al contrario mettendole tutte in gioco, apprezzando ciò che viene da una parte politica e culturale diversa ma tentando seriamente di produrre una sinfonia delle differenze, come poi si è rivelata la Costituzione italiana.
Si dirà che c’erano ben altri protagonisti della vita politica e sociale di quelli che sono oggi sulla scena: se questo è certamente vero, non è un motivo valido per rinunciare a priori a tentare di rimettere assieme i cocci di una società disgregata e spezzettata come è la nostra oggi.

Il Concilio ha trattato il tema della laicità, e in particolare del rapporto con il mondo, soprattutto nella Gaudium et Spes. Ma voglio partire dal discorso di apertura del Concilio di Papa Giovanni, rileggendo alcuni passaggi straordinari e illuminanti sul tema che stiamo affrontando.
Dopo averne parlato solamente con alcuni dei suoi più stretti collaboratori, ad appena tre mesi dal suo insediamento, il 25 gennaio 1959 papa Giovanni rende nota la decisione di convocare un concilio ecumenico. La notizia stupisce il mondo intero e preoccupa la curia vaticana, che è incredula di fronte ad una decisione così importante, gravida di conseguenze sul futuro della chiesa. Anche perché papa Giovanni vuole un concilio non tanto per definire nuove verità, ma per aiutare la chiesa a calare meglio il Vangelo in un mondo profondamente cambiato. E vuole un concilio deliberante e non semplicemente consultivo, e questo preoccupa ancor più la curia romana. È così che l’11 ottobre 1962 pronuncia il discorso di apertura del Concilio che così si sviluppa ai punti 2 e 3: 2. Spesso infatti avviene, come abbiamo sperimentato nell’adempiere il quotidiano ministero apostolico, che, non senza offesa per le Nostre orecchie, ci vengano riferite le voci di alcuni che, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa. 3. A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo.  Quando anche oggi, purtroppo, molti profeti di sventura, dentro la chiesa, non vedono altro che una chiesa assediata e ferita, attaccata e violata da tutte le parti, e vedono solo cose negative e un futuro disastroso, questo discorso del papa costituisce una vera e propria boccata d’aria fresca.
Ma dicevamo che è la costituzione Gaudium et Spes che affronta al Concilio il rapporto fra chiesa e mondo contemporaneo.
Sul ruolo dei laici cristiani così si esprime la Gaudium et Spes al punto 43:

Ai laici spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali. Quando essi, dunque, agiscono quali cittadini del mondo, sia individualmente sia associati, non solo rispetteranno le leggi proprie di ciascuna disciplina, ma si sforzeranno di acquistare una vera perizia in quei campi. Daranno volentieri la loro cooperazione a quanti mirano a identiche finalità. Nel rispetto delle esigenze della fede e ripieni della sua forza, escogitino senza tregua nuove iniziative, ove occorra, e ne assicurino la realizzazione.
Spetta alla loro coscienza, già convenientemente formata, di inscrivere la legge divina nella vita della città terrena. Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale.
Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che, ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta, o che proprio a questo li chiami la loro missione; assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del Magistero (97).
Per lo più sarà la stessa visione cristiana della realtà che li orienterà, in certe circostanze, a una determinata soluzione. Tuttavia, altri fedeli altrettanto sinceramente potranno esprimere un giudizio diverso sulla medesima questione, come succede abbastanza spesso e legittimamente.
Ché se le soluzioni proposte da un lato o dall’altro, anche oltre le intenzioni delle parti, vengono facilmente da molti collegate con il messaggio evangelico, in tali casi ricordino essi che nessuno ha il diritto di rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l’autorità della Chiesa.
Invece cerchino sempre di illuminarsi vicendevolmente attraverso un dialogo sincero, mantenendo sempre la mutua carità e avendo cura in primo luogo del bene comune.
I laici, che hanno responsabilità attive dentro tutta la vita della Chiesa, non solo son tenuti a procurare l’animazione del mondo con lo spirito cristiano, ma sono chiamati anche ad essere testimoni di Cristo in ogni circostanza e anche in mezzo alla comunità umana.

C’è dunque nel Concilio una visione positiva dell’impegno dei laici nel sociale e nel politico, che Paolo VI sintetizzerà nella frase: “La politica è la più alta forma di carità”.

Riprendendo ora i testi sui quali vi siete preparati per questo seminario, parto dall’intervento di Ilvo Diamanti, sociologo dell’università di Urbino e politologo.

Dai dati del CENSIS e dell’EURISPES si coglie che l’Italia è oggi un paese spezzettato, senza identità, in cui ognuno corre da solo e non ha il senso del bene pubblico, del bene comune: “neanche le tradizionali organizzazioni di solidarietà (volontariato ecc.), ma neppure l’azione dei cattolici, siano oggi in grado di creare unità ed integrazione”.
C’è un “inverno civile” simile a quello del ’92 nei giorni di tangentopoli. Ma a differenza di allora, dove di fronte alla dissoluzione dei partiti e alla delegittimazione della classe politica c’era una forte speranza che l’Italia uscisse da quella “anomalia” in cui viveva, oggi non c’è più speranza, non si riesce ad immaginare il futuro. Allora insieme al “muro” erano crollate anche le ideologie. E dopo la fine della DC, i cattolici si erano “sparsi” in tutte le direzioni, in tutti i principali partiti. Ma si avvertiva nel paese un forte desiderio di ripartire, di farcela ad entrare in Europa. Sindaci e Sindacati, associazioni e organizzazioni di categoria riuscivano ancora a coagulare e tenere assieme l’Italia. Oggi, “I ganci si sono sganciati”, i sindaci non fanno più miracoli. Il Paese si è spezzato. Il Mezzogiorno è rientrato nella spirale del sottosviluppo, ricacciato negli stereotipi del passato. Il Nord – e il Nordest, in particolare – impegnato a marcare le distanze da Roma e dal Sud. L’Unione Europea non è percepita più come un’ancora ma, da una quota crescente di cittadini, come un vincolo, un freno. Le Onlus si stanno trasformando in grandi imprese, per quanto dedite a finalità benefiche. Parte del volontariato si è, anch’esso, aziendalizzato. La compassione e la solidarietà si sono mediatizzate. Praticate a distanza. Un Sms, un’offerta sul proprio conto. Un clic e via. Siamo più buoni. Cattolici e laici: non definiscono più identità compatibili. Ma sempre più alternative. Solchi di una comunità che non è più tale. Divisa dall’etica e nella politica.
E padre Bartolomeo Sorge, direttore di “Aggiornamenti sociali”, aggiunge:

La cosiddetta “religione civile” riconosce che la religione dà stabilità e coesione alla vita civile, si oppone alla violenza, favorisce la pace. Pertanto in via di fatto sono superate le vecchie ragioni dell’illuminismo che — di fronte agli abusi perpetrati in nome di Dio — aveva fatto ricorso alla «laicità» come a una istanza di ragione universale esterna alla religione, riducendo quest’ultima a mero fenomeno privato. È una evoluzione certamente positiva, ma non senza problemi. Infatti, c’è il rischio che la religione sia vista soprattutto come un utile supporto al raggiungimento di finalità civili, con possibili nuove reciproche strumentalizzazioni nel rapporto tra Stato e Chiesa, simili a quelle che caratterizzarono la vecchia «cristianità». Il danno maggiore lo subirebbe la Chiesa. Infatti — come scrive Enzo Bianchi —, la riduzione della religione a fenomeno culturale e civile fa nascere «un cristianesimo finora inedito (lo si può forse definire post-cristiano) che […] non vuole più essere giudicato sul suo essere o meno “evangelo”; un cristianesimo che preferisce essere declinato come “religione civile”, capace di fornire un’anima alla società, una coesione a identità politiche, diventando così quella morale comune che oggi sembra deducibile solo a partire dalle religioni. In quest’ottica pare che l’unico interesse sia che la Chiesa rappresenti un elemento centrale della vita della società, e poco importa se questo significa che il Vangelo perda il suo primato, che non ci sia più possibilità di profezia, che finiscano per prevalere logiche di potere». Si tratta di un pericolo reale, verso cui spingono i cosiddetti «atei devoti». Sono alcuni intellettuali e figure istituzionali di spicco che, pur dichiarandosi non credenti (e magari avendo avversato la Chiesa fino a ieri), oggi — di fronte ai processi di secolarizzazione e di frammentazione spirituale che accompagnano l’affermarsi di una società multietnica e multireligiosa — vedono nel cristianesimo un baluardo a difesa della identità e della cultura occidentale, con la quale lo identificano. Questa visione strumentale del cristianesimo spegne di fatto la profezia evangelica. È lamentevole, perciò, che non se ne rendano conto quegli ecclesiastici e quei movimenti che parteggiano apertamente per gli «atei devoti». Certo, nessuno può impedire ai vescovi di rivolgersi anche ai responsabili del bene comune, in particolare quando sono in discussione esigenze etiche fondamentali, come quelle riguardanti la persona, la vita, la famiglia. È un loro dovere, che rientra nella missione della Chiesa di illuminare e formare le coscienze sul piano etico e religioso. Tuttavia, i Pastori non devono sostituirsi ai laici, ai quali spetta la responsabilità di compiere le necessarie mediazioni dai principi alla prassi politica. «Dai sacerdoti — dice il Concilio Vaticano II — i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che a ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta o che proprio a questo li chiami la loro missione: assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del Magistero» (Gaudium et spes, n. 43). È importante quindi, per quanto concerne il Magistero, evitare, anche nel tono e nella forma, di dare l’impressione che esso voglia «dettare leggi» allo Stato o attentare alla sua laicità. Ciò servirebbe solo ad accreditare ulteriormente l’idea di una «religione civile». Nello stesso tempo, per quanto concerne lo Stato, occorre ribadire che autonomia dalla sfera religiosa non significa affatto autonomia dalla sfera morale, come invece propongono le teorie etiche procedurali, sostenendo una (solo apparente) neutralità del diritto. Perciò, non ha senso ed è fuorviante definire «confessionale» la difesa da parte della Chiesa di esigenze etiche, che concordano poi con i principi laici su cui si fonda la democrazia: il rispetto della persona, la libertà, la solidarietà, l’uguaglianza dei diritti, la giustizia e la pace. In altre parole, la politica è laica, laici sono i valori a cui essa si ispira, laiche le finalità a cui tende. Pertanto laiche saranno anche le scelte che i cattolici sono chiamati a compiere in politica insieme a tutti gli uomini di buona volontà e in coerenza con la loro ispirazione religiosa. A questo punto, però, occorre precisare il concetto di «laicità».
Il Concilio Vaticano II ha riconosciuto la laicità come valore. Infatti — spiega la costituzione Gaudium et spes — le realtà temporali hanno un loro valore intrinseco, hanno finalità, leggi e strumenti propri, che non dipendono dalla rivelazione soprannaturale: «È in virtù della creazione stessa che le cose tutte ricevono la propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine. L’uomo è tenuto a rispettare tutto ciò, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola arte o scienza» (Gaudium et spes, n. 36). Per la Chiesa, quindi, la laicità non è un accidente storico, ma ha addirittura un fondamento teologico.
Ora, sul piano politico, la nuova laicità, intesa non più come separazione tra diversi, ma come «fecondazione reciproca», comporta che, senza rinunciare alla propria identità, credenti e non credenti cerchino insieme piste concrete per realizzare il maggior bene comune possibile in una data situazione, consapevoli delle necessarie mediazioni da compiere. Ciò può fare problema soprattutto ai cattolici, chiamati a ispirare le scelte politiche a esigenze etiche fondamentali e irrinunciabili. Tuttavia, è la natura stessa dell’arte politica a non consentire che quelle esigenze assolute si traducano immediatamente in leggi, ma a imporre la necessaria gradualità richiesta dalle situazioni concrete.
Lo rileva il Compendio della dottrina sociale della Chiesa: «Il fedele laico è chiamato a individuare, nelle concrete situazioni politiche, i passi realisticamente possibili per dare attuazione ai principi e ai valori morali propri della vita sociale. […] la fede non ha mai preteso di imbrigliare in un rigido schema i contenuti sociopolitici, consapevole che la dimensione storica in cui l’uomo vive impone di verificare la presenza di situazioni non perfette e spesso rapidamente mutevoli» (n. 568). Pertanto, la collaborazione politica dei cattolici con partner di diverso orientamento culturale va impostata laicamente e nel rispetto delle regole democratiche, ma senza compromettere la propria identità e in coerenza con i valori ispiratori. Il cristiano sa che Cristo è la via, la verità e la vita (e ciò gli dà una certezza incrollabile nell’agire), ma è cosciente che la conoscenza del percorso concreto è sempre imperfetta. Sarà lo Spirito a guidare alla conoscenza più piena della verità (cfr Gv 16,13), servendosi anche delle situazioni storiche, dei «segni dei tempi» e del dialogo interculturale. Dando e ricevendo. Quindi in politica il rispetto della nuova laicità esige, da un lato, che il cristiano non tenti di imporre agli altri la luce che gli viene dalla fede religiosa, ma si sforzi di tradurla in termini laici, comprensibili e accettabili da tutti; d’altro lato, esso richiede che i partner laici siano ugualmente disponibili al dialogo e al confronto, prendendo atto che la ispirazione religiosa è portatrice di motivazioni forti per un impegno politico coraggioso ed efficace. Questo incontro confronto tra credenti e non credenti sul piano della laicità è una ricchezza della democrazia matura. In ogni caso, il cristiano è cosciente di essere portatore di un contributo specifico, di cui il mondo ha bisogno: immettere nella vita politica e nella costruzione della città dell’uomo il cemento della carità, inteso laicamente come solidarietà. Coerentemente con il Vangelo, egli vivrà l’esercizio del potere non come privilegio, ma come servizio. Vigilerà affinché la nuova laicità non degeneri in omologazione (al «pensiero unico») e non favorisca la deriva neoliberista, i cui esiti sono altrettanto esiziali di quelli del liberismo illuministico.
I cattolici, quindi, devono essere capaci anche di esercitare un ruolo di opposizione. Come potrebbero non opporsi, democraticamente e laicamente, a una visione utilitaristica della politica, che usa il potere a difesa di interessi corporativi o addirittura personali, relegando in secondo piano le ragioni dei deboli che non godono dei diritti sociali? Come potrebbero non opporsi a scelte politiche che portano al disfacimento della famiglia o attentano alla vita umana e alla sua dignità? Dunque i cristiani, mentre si impegnano in politica a rispettare pienamente la laicità e le regole democratiche, ricercando il maggior bene concretamente possibile in dialogo con gli uomini di buona volontà, non rinunceranno mai a testimoniare la forza profetica e critica del Vangelo. Tocca alla Chiesa intera di annunziare profeticamente, con la Parola e con la vita, che «il potere di Dio è diverso dal potere dei potenti del mondo. Il modo di agire di Dio è diverso da come noi lo immaginiamo e da come vorremmo imporlo anche a Lui.
Dio in questo mondo non entra in concorrenza con le forme terrene del potere. Non contrappone le sue divisioni ad altre divisioni. […] Egli contrappone al potere rumoroso e prepotente di questo mondo il potere inerme dell’amore, che sulla Croce — e poi sempre di nuovo nel corso della storia — soccombe, e tuttavia costituisce la cosa nuova, divina che poi si oppone all’ingiustizia e instaura il Regno di Dio» (BENEDETTO XVI, «Omelia alla Veglia di preghiera, durante la XX Giornata Mondiale della Gioventù», in L’Osservatore Romano, 22-23 agosto 2005).

Lo scontro sulla laicità e sul rapporto chiesa-mondo oggi passa duramente anche all’interno delle comunità dei credenti. Voglio darvene conto riportando alcuni scontri durissimi degli ultimi tempi.
Già durante il referendum sulla legge 40 sulla fecondazione assistita, il mondo cattolico si spaccò non tanto sull’essere favorevoli o meno al merito delle questioni, alcune molto tecniche e di difficile comprensione, quanto sulla opportunità o meno dell’intervento del presidente dei Vescovi italiani che non si limitò a richiamare i valori e i principi in gioco ma scese nell’agone politico indicando addirittura la modalità di voto che i cattolici dovevano attuare. Se questo comportamento da una parte lascia perplessi, pensando anche che il diritto canonico vieta a diaconi, preti e vescovi di fare politica, dall’altro umilia il ruolo dei laici cattolici che da questi interventi sono di fatto privati di qualunque capacità autonoma di discernimento e di proposta politica che invece, il concilio la ha ribadito, è il tipico terreno dei laici.
Ma anche recentemente il problema si è riproposto con il caso di Eluana Englaro. Senza riaprire una polemica che ci porterebbe lontano, in tema di laicità va citato un episodio significativo del clima in cui viviamo. In risposta ad un feroce attacco che il super laicista ateo devoto Giuliano Ferrara aveva portato al card. Tettamanzi, reo di aver avuto parole misurate e sagge sulla questione, l’Associazione dei Medici Cattolici gli ha impartito una lezioni di laicità così scrivendogli: “… ci spiace, ma per noi hai sbagliato valutazione; non è vero che il pensiero dell’arcivescovo Dionigi Tettamanzi è stato tiepido, glossa alla vita reale senza volersi sporcare la penna. Al contrario è un richiamo caldo, limpido e reale alla coscienza di ognuno, credente o laico che sia. Da cattolici ti rispondiamo laicamente che da certe questioni non devono più tirarsi indietro i soggetti competenti: mondo medico-scientifico da una parte e mondo politico dall’altra, il quale deve aprire un serio dibattito in sede parlamentare, … senza guerre preconcette, anzi con animo pacato e nel pieno rispetto delle opinioni altrui. Non possiamo demandare e domandare a un vescovo qualcosa di più del suo compito”. Parole chiare ed ineccepibili.
Infine la questione del Concordato. Se a sentir parlare di rimessa in discussione del Concordato fra Stato e Chiesa c’è una reazione veemente da parte dei vertici della chiesa italiana, pochi giorni fa il vescovo emerito Luigi Bettazzi ha affermato: “In Italia il Concordato è stato fatto durante una dittatura, per salvare la propria libertà. Per questo penso che oggi il modello ideale per il nostro Paese potrebbe essere quello americano: negli USA non si fanno concordati, ma leggi che valgono per tutte le religioni”. La posizione del vescovo Bettazzi è pienamente in linea con la costituzione conciliare Gaudium et Spes che al n. 76 afferma:
È di grande importanza, soprattutto in una società pluralista, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori.  La Chiesa che, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana. Tuttavia essa non pone la sua speranza nei privilegi offertigli dall’autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni.

È chiaro che il Concordato firmato da Craxi e dal card. Casaroli nel 1984 da alla Chiesa cattolica privilegi che sono in contrasto con quanto affermato dalla Gaudium et Spes al punto appena letto, e una regolamentazione per legge ordinaria darebbe certamente maggiore chiarezza e reciproca libertà a Stato e Chiesa.
Conclusione.
In questo tempo così confuso, in cui i laicisti fanno gli atei devoti, alcuni Vescovi danno indicazioni politiche, i movimenti cattolici sono divisi, i cattolici sono dispersi non solo in tanti partiti, il che è legittimo e ormai acquisito, ma anche sul modo di intendere il rapporto chiesa-mondo, voglio concludere con un illuminante e straordinario intervento che nel 1976 scrisse Gianni Zaccherini. Gianni è stato per me un riferimento spirituale fondamentale: profondo conoscitore della Bibbia, uomo di grande generosità e amore, padre di sette famiglie di cui tre in affido, fu chiamato a trasferirsi da Fano a Monteveglio dal suo grande amico don Giuseppe Dossetti. Gianni è morto in un incidente stradale in una fredda mattina d’inverno di quasi sette anni fa, mentre come sempre andava a portare la parola di Dio in una parrocchia. Un giovane di ritorno dal sabato sera sbandando gli è andato addosso e l’ha ucciso. Gianni, dicevo, ha scritto questo testo nel 1976 che vi voglio leggere e col quale concludo il mio intervento.

Il multiforme servizio del cristiano ha una convergenza unica: l’evangelizzazione; e si articola in due momenti, il momento comunitario e quello personale, in modo tale che la comunità cristiana si trova ad essere il luogo privilegiato della liberazione e del servizio. Se il cristiano è l’uomo reso libero per il servizio di ogni uomo, testimoniare il vangelo significa proprio rendere manifesta questa realtà. Questo è il compito della Chiesa, comunità degli uomini liberi che si pongono al servizio degli uomini nel mondo.
A parte la non conformità storica della Chiesa a questa sua vocazione per una lunga prassi di tradimenti e infedeltà, bisogna individuare e negare alcune possibili «tentazioni» che costituiscono il supporto di ogni infedeltà. Sarà così possibile individuare con sufficiente chiarezza le modalità del servizio che la Chiesa deve rendere al mondo nel suo cammino verso la liberazione.
Una prima tentazione è quella che ci porta a considerare la Chiesa e la società civile come due dimensioni separate, autonome ed autosufficienti di esistenza, ciascuna con i propri contenuti e valori e le proprie settoriali esperienze. Alla Chiesa compete il «fatto religioso», alla società civile il «fatto politico». In questa prospettiva alla sfera del religioso viene assegnato l’aspetto individuale-pietistico dell’esistenza, mentre il momento socio-politico viene assunto dalla comunità civile, nel senso mondano del termine. Anche i momenti associativi nella sfera del religioso conservano una dimensione prettamente individualistico-pietistica. Data però la complessità dei termini in gioco, ne consegue una conflittualità permanente in cui emerge e prevale la logica di potenza mondana a cui soggiacciono entrambe le realtà. Infatti la società religiosa pretende sempre di «animare» quella politica, di finalizzarla a sé, di «cristianizzarla», e gli individui e i gruppi organizzati all’interno del fatto religioso diventano elementi e strumenti di potenza sul piano politico-mondano. E quando i cristiani singolarmente o associati accedono, in questa prospettiva, all’azione politica, ne usano con cinismo e spregiudicatezza, con passione corrotta e corruttrice come nessuno. È questa la prassi di Chiesa a cui siamo stati formati e che ancor oggi è purtroppo dominante. Il modo di considerare l’economia, la scuola, l’assistenza sanitaria e civile ad ogni livello, l’amministrazione della giustizia rientrano in questo quadro, di cui non ultimo drammatico episodio è stato il referendum sullo istituto civile del divorzio.
Una seconda tentazione è quella che giustamente riconosce nella Chiesa l’attuarsi di una totalità di esperienza «politica» (e non solo di una prassi individualistico-pietistica solo estrinsecamente rivolta al socio-politico) ma poi, con una sorta di corto circuito riducente, ne proietta immediatamente la prassi nella esperienza politica mondana come nel campo proprio di sua concretizzazione ed attuazione. Così facendo la Chiesa viene collocata sullo stesso piano del mondo, contrapponendosi ad esso sul suo stesso terreno, come scontro di civiltà,. struttura, ideologia La Chiesa cioè nel momento in cui vuole assumere in sé il mondo ne viene invece totalmente assorbita. È questa la posizione del movimento emergente di Comunione e Liberazione.
La terza tentazione sembra collocarsi apparentemente al polo opposto. Si cerca cioè di eliminare pregiudizialmente e radicalmente i confini fra Chiesa e mondo concependo l’esperienza cristiana come una assunzione piena e totale delle tensioni di liberazione, rivoluzione e salvezza dell’esperienza politica mondana. La Chiesa cioè si dissolve nel mondo. Si può riconoscere in questa proposta il movimento dei cristiani per il socialismo.
Secondo il Nuovo Testamento però, in una lettura che, pur tenendo conto di ogni strumento critico possibile, non cessi dal ritenerlo il prius, la fonte e la causa di ogni comprensione, la Chiesa ci appare come il nuovo mondo in Gesù Cristo, ciò che il mondo deve diventare se si converte, e che solo alla fine dei tempi sarà. Fino alla fine ci saranno due realtà, una di fronte all’altra: la Chiesa e il mondo. La realtà della vita ecclesiale è globale, «politica», esaurendo in sé una piena esperienza umana, autonoma e contrapposta, qualitativamente alternativa al mondo ed al suo habitus politico di esistenza. La Chiesa è un popolo, e la vita di un popolo è onnicomprensiva. In Atti 2,42 troviamo schizzato il volto di questo popolo: «Essi erano completamente dediti all’insegnamento degli Apostoli, alla vita comune, alla frazione del pane e alle preghiere». Ognuno di questi dati andrebbe esplicitato, ma è sufficiente soffermarsi su «vita comune». Vita comune: avere un cuor solo ed un’anima sola, non dire proprio ciò che è di tutti, servirsi a vicenda nell’amore. Se ben compreso questo dato è sconvolgente: è questa «un’usanza» che sconvolge il mondo (cfr. Atti 16,20 s.). Fra cristiani non esiste più il problema della proprietà privata, anche se secondo il diritto «civile» uno possiede qualcosa e l’altro no. Tutto è di tutti, e colui che ha bisogno ottiene gratis dal fratello. Fra cristiani non vi sono contese di fronte ai tribunali (cfr. 1 Cor. 6,1-11). Fra cristiani non ci sono più guerre o violenze di alcun genere. Per il cristiano la ricchezza non è più un valore. Il risparmio? Ci sono i fratelli nel bisogno, come può il cristiano risparmiare? Ma il futuro, la famiglia, i figli? Dio è il futuro, assieme ai fratelli. Vita in comune, condizionamento reciproco, beni in comune, abolizione dei «diritti», sovranità della legge del «servizio» (cfr. Mt. 20,28) che è la legge perfetta della libertà (cfr. Gc 1,25).
Così la Chiesa annuncia con la sua presenza il Vangelo al mondo. Vivere cristiani nel mondo è testimoniare, in attesa della venuta del Signore per la conversione e la salvezza di tutti (cfr. 1 Pt 2,12). La vita di Chiesa è una proposta al mondo: venite a vedere come noi ci amiamo. Questo annuncio, questo invito, è anche sempre un giudizio: tu mondo sei incapace di tutto questo, sei finito, superato, destinato alla morte: «salvatevi da questa generazione perversa» (Atti 2,40).
Contemporaneamente però la Chiesa esprime anche una dimensione di «collaborazione» col mondo, nel suo empirico e tragico cammino: pure questo è servizio. Fino alla fine dei tempi il mondo sussiste nella sua autonomia e nella sua realtà, già giudicata e condannata in Cristo, Ma sussistente per la misericordia di Dio che tutti vuole salvare. Questo mondo ha una sua «politica» e la sua storia. In questa sua realtà, in questa sua sussistenza, può esserci posto  anche per la Chiesa e per il cristiano, un posto non preteso e tanto meno imposto (come tante volte la Chiesa ha fatto e continua a fare) ma un posto proposto, come umile servizio e disponibilità. Anche così, come un’umile serva di fronte al mondo, la Chiesa proclama il vangelo di Cristo, «provoca» il mondo, gli annuncia il giudizio, gli offre la salvezza. Il servizio della Chiesa e del cristiano è allora duplice. In primo luogo l’esemplarità di una nuova esistenza comunitariamente visssuta (cfr. Atti 2,42 ss.), dall’altra un «servizio» leale e generoso, nei limiti dell’accettazione che gli viene dal mondo. La società, gli stati, le nazioni, le generazioni, i popoli, le classi, in questo mondo rimangono mondani. L’unico popolo, l’unica generazione, l’unica società che può dirsi cristiana è la Chiesa, nella sua semplicità e povertà. A livello mondano invece, la Chiesa e il cristiano si pongono come coloro che servono, che offrono la loro disponibilità più piena a quanto di buono può essere ricercato. Si lavora per la pace? Il cristiano è disponibile: lui è il beato facitore di pace, dice il Vangelo. Si lavora per una maggiore giustizia? Il cristiano è disponibile: lui, dice il Vangelo, è il beato affamato di giustizia. Si lavora per là liberazione dei popoli e degli individui, per togliere ogni uomo dalla schiavitù del bisogno e della fame, della malattia e dell’emarginazione? Si vuole offrire a tutti maggiore spazio di libertà attraverso la diffusione dello studio e della conoscenza? Il cristiano è disponibile, con il suo volto proprio, che è quello del servo di Jahvé (cfr. Is. 42,1-9; 49,1-6; 50,4-11; 52,13-53,12).

Luciano Benini
Fano, agosto 2008


Scrivi un commento